Giò Alajmo, la storia di un giornalista immerso nella Musica

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INTERVISTE STORIA, ARTE E CULTURA

Giò Alajmo, la storia di un giornalista veneziano immerso nella Musica

Alajmo a Firenze

Per i lettori del Gazzettino Giò Alajmo è stato un punto di riferimento per decenni, ma lo è stato anche per i colleghi critici musicali di tutt’Italia. Per gli amici, invece, è fonte inesauribile di aneddoti e battute, raccontate sempre con cortesia ed ironia. Il giornalista veneziano, classe 1953, è ormai in pensione dopo 40 anni di attività nello storico quotidiano del nordest, (cronista a Venezia, poi continuativamente vicecaposervizio cultura e spettacoli, inviato e critico musicale). Esperto di rock in particolare, ha al suo attivo migliaia di recensioni di concerti e interviste ad artisti di tutto il mondo. Fra i libri scritti, da citare la recente biografia del bluesman veneziano Guido Toffoletti, pubblicata nel 2019 da Media Books, numerose collaborazioni a libri di altri (vedi il recente “Springsteen 50”) ed è stato anche citato in diverse tesi di laurea.

Alajmo Libro
La copertina del libro dedicato da Giò Alajmo al musicista e amico Guido Toffoletti

Si può dire che Giò Alajmo ha seguito ogni genere di musica, ma a quale e a quali artisti è più legato?

Complicato rispondere fra mille. I primi album comprati furono di Otis Redding, Simon e Garfunkel e Rolling Stones. Mi piacevano molto anche i Procol Harum. Poi scoprii Jimi Hendrix e vidi in concerto a Venezia i Vanilla Fudge, che mi fecero esplodere l’amore per l’hard rock, quindi i Deep Purple. Anche perché da bambino studiavo pianoforte e a scuola mi avevano fatto amare Beethoven e Ciaikovskij. E poi Frank Zappa, Bob Dylan e i Pink Floyd. Però mi viene in mente che un amico vendeva in blocco dieci album di John Mayall e glieli comprai tutti io. Fra gli italiani sicuramente De André e Baglioni per lunga amicizia, come con la Pfm e le Orme, e Fossati. Ma ne dimentico una sfilza. Però tra le cose che ricordo con più emozione c’è un concerto alla Fenice di Arthur Rubinstein, che seguii praticamente accanto al pianoforte.

In Italia musica è anche sinonimo di Sanremo; sei fra i giornalisti decani del festival, avendone seguiti ben 40 e contribuito a ideare il Premio della Critica. Qual è il ricordo a cui tieni di più? 

Ricordi troppi. A parte le sfuriate di Claudio Villa bocciato, che ci fece venire l’idea di fare un sondaggio tutto nostro, era l’82 e il premio della critica a quel festival lo vinse Mia Martini, se mi chiedi cosa ricordo per prima cosa direi le notti con Steve Cropper a bere whisky e poi a chiacchierare con Bill Wyman, mentre Andrea Mingardi improvvisava in una discoteca con i Blues Brothers. Cropper per me è una leggenda, il chitarrista che ha composto “Sittin’ on the Dock of the Bay” e accompagnato con Booker T & the MG’s Otis Redding e i grandi della Stax. Della gara, boh… Diciamo il pelo dritto la prima volta che ho ascoltato Giorgia e la meraviglia per quello che Elisa faceva con la voce e la musica.

Anche la musica è stata rivoluzionata dalla tecnologia (vedi Spotify o You Tube), ma d’altro canto il vecchio vinile è tornato in pista. Quale futuro vedi per il mondo delle sette note?

Il vecchio vinile durerà finché c’è gomma per le cinghie dei giradischi, ma il suo tempo è finito. Il mondo va sempre verso ciò che è più comodo, occupa meno spazio e si può scambiare facilmente. Valeva per le musicassette che suonavano da schifo, ma erano comode. Vale per l’Mp3, che suona anche peggio, e stanno invece sparendo i cd che erano un ottimo compromesso. Il problema è che con i dischi sono scomparse anche tutte le informazioni che si trovavano sulle copertine, le immagini artistiche che le rendevano progetti unici, ma sta sparendo anche la musica, che sento ascoltare sempre più distrattamente, in sottofondo, da altoparlanti minuscoli, suoni compressi, senza dinamica, arrangiamenti banali. Rumore da canticchiare stonando senza problema. Resteranno delle nicchie e il resto finirà in una Milla Vanilla di brani costruiti artificialmente e attribuiti a personaggi fittizi, buoni per tutti i palati. E tutti felici. Ma forse mi sbaglio. Spero.

Alajmo la Pfm
Giò Alajmo con alcuni dei componenti storici del gruppo Premiata Forneria Marconi

Da critico veneziano hai contribuito a far conoscere anche molti artisti locali; ce n’è qualcuno del quale hai scritto, che secondo te avrebbe meritato maggior fortuna?

Oggi ci sono diversi artisti musicali che meriterebbero maggior fortuna, come Erica Boschiero o i Do’Storieski, per citare i primi. So che gli Estra di Treviso stanno registrando nuovo materiale e Giulio Casale è uno che avrebbe dovuto raccogliere molto più da quanto ha seminato, nella musica e in teatro, ma sono tempi difficili. Dove una volta si poteva vivere alla grande, oggi si sopravvive. Uno invece di cui avrei dovuto occuparmi di più, ma ero distratto da altro, guardavo più al mondo che a Venezia, è stato Lucio Quarantotto. È un mio rimpianto, e ormai purtroppo è tardi.

A proposito della tua lunga vita professionale passata al Gazzettino, la carta stampata e l’informazione tradizionale sono davvero destinate ad un lento e inesorabile declino?

Vale il discorso fatto prima sulla comodità a scapito della qualità della musica. Avere un telefonino e leggere le notizie che ti arrivano gratis per molti è “informazione”. Non è così. Oggi tutto il mondo digitale spinge per la “profilazione” per meglio venderti la propria fuffa e questo significa che credi di essere informato perché ti arrivano tante notizie! Ma in realtà finisci per leggere sempre e solo le stesse cose, orientate allo stesso modo, spesso in modo fuorviante. E del resto non sai nulla. Con le debite eccezioni. Di certo, te lo dice uno che si è fatto installare in redazione il primo computer e la prima mail e ha testato tutti i sistemi di trasmissione da remoto. I giornali hanno perso la partita con la rete e le sue possibilità quando si sono arroccati in difesa dello status quo invece di cavalcare la tigre. Quando si sono riallineati, ormai era troppo tardi. 

Cosa “bolle in pentola”, ovvero a cosa si sta dedicando attualmente il Gìò Alajmo scrittore di musica?

Ho comprato un paio di chitarre, vado a sciare, nuoto, faccio giocare le nipotine, finalmente ceno con gli amici, ascolto e vedo l’ascoltabile, dai Rolling Stones ai Måneskin, e sistemo i miei archivi. Ho migliaia di fotografie scattate in migliaia di concerti in quarant’anni e più e migliaia e migliaia di piccoli aneddoti e ricordi musicali che ogni tanto mi diverto a raccontare. Anche in teatro quando capita, per esempio con lo spettacolo su Joe Cocker che ho scritto per gli Zampa di Cocker, dove racconto un po’ di storie. Ho anche due o tre libri che forse mi deciderò a finire e qualcuno proverà a pubblicare. Più uno che è già pronto, scritto a quattro mani con Savina Confaloni e che è in lettura. Vedremo.

Giò Alajmo e i Depress
I Depress in concerto con la partecipazione di Aldo Tagliapietra

E i Depress, la tua band formata da giornalisti, che storia è stata?

Goliardica, divertente, casuale. Nacque tutto per caso, l’invito di una collega che si laureava di movimentare con un po’ di musica la sua festa. E pensai di  mettere insieme una band, come i… Blues Brothers. Partii da due vecchi amici musicanti, Roberto Bianchin e Guido Lion, con Guido avevamo suonato sulle navi al liceo e Bianchin era stato oggetto della mia prima recensione, pubblicata sul giornalino del collegio Pio X di Treviso. E poi raccattai chiunque fra i colleghi aveva uno strumento e diceva di saperlo suonare, un chitarrista classico, un violinista, un cantautore chitarrista, un altro chitarrista. Selezionammo brani della nostra epoca di non più di tre accordi e via. Siccome era divertente ci mettemmo anche a raccogliere beneficenza per varie cause, chiedendo mille lire per volta a chi ci ascoltava.
E il primo raccolto lo andai a consegnare all’Aism diMestre. Erano entusiasti. Così chiesi di cosa avevano bisogno per risolvere un qualche problema. Dissero che c’era una donna che non poteva uscire di casa da lungo tempo perché abitava ai piani alti e le scale erano strette. Serviva una particolare sedia a motore in grado di portarla giù e su, che aveva un certo costo. Dopo qualche tempo tornammo con un altro raccolto, superiore alle necessità. La signora ebbe la sua sedia. L’Aism ci chiese cosa fare dell’eccedenza. Avevo letto di un’altra associazione, l’Anfass, che aveva problemi di fondi: “Perché non li date a loro”. Così un’associazione solidale beneficò un’altra associazione solidale. La cosa mi piacque molto. Partecipammo come ospiti alla rassegna Sanscemo e a due mega-eventi benefici a Milano e Trieste e a un paio di Delta Blues a Rovigo. Realizzammo anche la sigla del Lunedì Sport di Rai TreBasterebbe un gol”.  

Infine che musicista è Giò Alajmo?

I musicisti sono un’altra cosa. Noi spendevamo il tempo libero facendo un po’ di musica come capita, a parte Adriano De Grandis, che fece anche un ottimo disco solista vero, con le sue canzoni. A me interessava la meccanica degli strumenti, come si suonano, come si gestisce un palco, come si sta davanti alla gente, come si prepara una scaletta, tutte cose utili da far poi rimbalzare sul lavoro vero, dove più capisci più poi spiegare. Il mio strumento preferito è l’organo, ma ho studiato pianoforte e ho un po’ di chitarre di vari tipi, di armoniche e flauti, con cui mi diverto ancora nel tempo libero.

Giò Alajmo, la storia di un giornalista veneziano immerso nella Musica ultima modifica: 2024-01-15T11:02:08+01:00 da Gigi Fincato

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