Porfirio Rubirosa non fa più il playboy nè il manovale, ora è cantautore, ma anche avvocato - itVenezia

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INTERVISTE PERSONAGGI

Porfirio Rubirosa non fa più il playboy nè il manovale, ora è cantautore, ma anche avvocato

Rubirosa Porfirio Ph Michele Faliani Premio Ciampi 2023

Porfirio Rubirosa, all’anagrafe Giovanni Albanese, nato nel 1976 e residente nel Veneziano, a San Donà di Piave, ha “rubato” il suo nome d’arte a un noto playboy dominicano vissuto nella prima metà del Novecento, citato ironicamente nel 1956 anche da Fred Buscaglione nella canzone Porfirio Villarosa, (che però nel brano “faceva il manovale alla Viscosa”). Il nostro Porfirio, invece, laureato in giurisprudenza, inizia la sua carriera artistica come attore di teatro e cabarettista amatoriale fino al 2005, per poi dedicarsi alla musica. Le sue canzoni contengono diverse citazioni musicali, letterarie e di costume ed è stato accostato, fra gli altri, a Freak Antoni degli Skiantos, Giorgio Gaber e Edoardo Vianello.  Al suo attivo diversi album, la partecipazione nel 2015 a un disco-tributo a Ivan Cattaneo e nel 2016 ha realizzato lo spettacolo di teatro-canzone “Porfirio Rubirosa fa Skiffle!”    

Porfirio Rubirosa, avvocato e artista, come concili due professioni così agli antipodi?

Più che il problema del conciliare, direi che è una questione di organizzazione. Faccio sempre l’esempio di quando si va al supermercato: ora non si comprano più le buste alla cassa, ma ci si porta le borse grandi da casa e quando si arriva alla cassa, se si è bravi a mettere la spesa, ci sta dentro tanta roba, come se fosse un carrello della spesa. E’ quindi solo un discorso di organizzazione. La questione è un’altra, è che sono grato al mio lavoro di avvocato perché, non dovendo ricevere il sostentamento dalla musica, posso essere totalmente e veramente libero. Cioè libero di non fare “marchette” di nessun tipo.
Dico tranquillamente di no a mille cose che mi vengono proposte e che non mi convincono. Primo fra tutti il fatto che sono un musicista del Veneziano, che però a Venezia e dintorni non suona praticamente mai, perchè da noi gli unici posti dove ci si può esibire sono quelli dove la gente va anche per mangiare e bere e dove quindi la musica è un optional. Per il tipo di spettacolo che faccio quei posti non li frequento. David Byrne [Talking Heads], autore del bellissimo libro “Come funziona la musica”, dice “la musica giusta al posto giusto”, cioè si fa bene a se stessi, agli organizzatori e alla nostra musica se la suoniamo nel posto giusto: non si può fare canzone d’autore in una birreria, come non si può fare cover in un folk club. Ma mi rendo conto che questa cosa è più facile quando si ha un sostentamento che deriva da altro. L’avvocato lo faccio da 22 anni e negli ultimi tempi ho rimodulato le cose, lavoro meno -anzi il giusto- e faccio musica con più profusione e forza. 

Rubirosa Ph Roberto Menardo
Foto di Roberto Menardo

Come mai hai scelto di usare un nome d’arte e perché proprio quello di un personaggio famoso negli anni Cinquanta, come Porfirio Rubirosa? 

Il nome l’ho scelto perchè era un ricordo d’infanzia, mio padre mi diceva che se andavo troppo veloce in bicicletta o con il motorino avrei fatto la fine di Porfirio Rubirosa, che si andò a schiantare contro un albero con la sua Ferrari. La scelta di un nome d’arte era legata al tipo di immaginario che volevo dare, cioè nei primi dischi avevo costruito questo personaggio in smoking, papillon, con uno stile intellettuale, ma al contempo semiserio, come l’uomo in frack di Modugno. Poi, da un punto di vista di evoluzione artistica, sono andato a parare da altre parti, ma va bene così. Mi spaventano, e ce ne sono tanti, gli artisti che sono sempre identici, che fanno sempre le stesse cose, perché, se la musica è il diario di una persona, pensare che questa sia sempre uguale da decenni a questa parte è spaventoso. Il mio nome d’arte è rimasto, anche se quello che faccio adesso è molto distante dall’inizio.      

A proposito di inizio, hai cominciato facendo teatro, cabaret e televisione, come andò?

Conducevo un programma di musica su Televeneto, grazie al quale ho intessuto rapporti di amicizia con la scena artistica veneziana, invitando personaggi come Skardy o Fabio Furlan, ma facendo per anni anche radio (Bella & Monella). Poi ho applicato la teoria del mitico comandante Giap dell’esercito vietnamita, che diceva “se compatti le forze perdi terreno, ma se le distribuisci perdi forza”, quindi alla fine ho deciso di concentrarmi su quello che mi interessava di più, che erano le canzoni. 

In te quindi coesiste un aspetto giocoso ed una parte più intellettuale, è così? 

C’è un verso di una mia canzone “La confusione” in cui dico di non confondere leggerezza con idiozia, nel senso che mi interessa una comunicazione di tipo leggero, ma non per forza idiota. Un esempio può essere la veneziana commedia dell’arte, che è leggera, ma non scema. Al contempo una cosa valutata spesso male è il concetto di ironia, che è una bella modalità, a condizione di non nascondersi. Molti cantautori della mia generazione che usano l’ironia, come Max Gazzè o Daniele Silvestri, sono tecnicamente dotatissimi anche a livello di scrittura, ma non si sa nulla di loro: giocano molto con le parole, ma come mi ha insegnato il mio modello di ispirazione principale che è Piero Ciampi, l’artista deve sacrificarsi anche mettendo in gioco se stesso. Voglio dire che la leggerezza è uno strumento efficace, ma se non ci si mette in gioco veramente si rischia di essere un cannone con le polveri bagnate.                        

Rubirosa Ph Michele Faliani Premio Ciampi 2023
Foto di Michele Faliani

Però tu hai fatto sia cose demenziali, alla Skiantos, che impegnate, come il teatro-canzone alla Gaber…

Ho anche lavorato nel 2012 con Freak Antoni degli Skiantos, quando ho fatto una cover di canzoni estive, modificando, autorizzato da lui, un suo  testo. Di fatto Gaber e Freak Antoni giocano sullo stesso campo, in una maniera diversa, ma entrambi con una leggerezza non fine a se stessa. Quindi per me sono dei modelli di riferimento.        

Ho letto che ti definisci “capo dei dadaisti”, in che senso?

Il mio non è un dadaismo codificato in termini artistici, ma è po’ il senso di quello che diceva Battiato, cioè che il vero segreto è di non farti mai trovare dove gli altri pensano che tu sia. Quindi il mio concetto di dadaismo è legato a una questione di controcultura. Una cosa che per me è una regola assoluta è che in tutte le mie canzoni non si troverà mai che io critichi qualcuno: come operatori culturali siamo chiamati a fare, non assecondare la cultura dominante, ma a proporre controcultura.     

Qual è il tuo rapporto con le nuove tecnologie applicate alla musica?

Quello che dovremmo fare è semplicemente pensare a fare buone canzoni, come uno scrittore pensa a fare un buon libro e non a quello che ci sta intorno. Quando si fanno buone canzoni, indipendente dall’Auto Tune, dai campionamenti, quello che conta è che sia una bella canzone. La vera differenza che noto tra una volta e adesso non è la tecnologia, ma che andiamo progressivamente verso l’ambizione di provare a fare grandi opere, cioè si è persa, forse per una cultura dell’immediato e dell’usa e getta, la voglia di fare grandi canzoni,  che vadano oltre la contingenza e questo prescinde dalla tecnologia. Secondo il musicologo Piero Scaruffi, un grande album per essere tale deve essere cartina tornasole del suo tempo in termini sociologici, deve avere delle liriche che riescano a rendere godibile anche un brano musicalmente poco forte e deve essere sempre un concept-album, anche quando non lo è. Questo è ciò che stiamo perdendo. Quando sento dire che gli album non contano più, in realtà questi sono un lavoro complessivo in cui il risultato è quasi sempre più della somma dei singoli elementi. Non ci sono più i grandi album della storia della musica.

Perfpormance di Porfirio Rubirosa

C’è poi da dire che è molto diminuito anche il tempo che l’utente dedica a un disco o a un libro…

Certo, però è anche vero che l’ultima cosa che dobbiamo fare è assecondare l’ignoranza: dobbiamo offrire modelli positivi di riferimento. Mi ricordo che negli anni Novanta se eri mainstream eri uno sfigato, se eri pop altrettanto, se eri alternativo eri quello giusto. Era quello che stava fuori dal flusso a dettare il ritmo. Il mondo va così perché esiste un unico modello di stile di vita che ci porta a queste semplificazioni sempre maggiori e ad un conseguente abbassamento della qualità. Negli anni Settanta i giovani cercavano di cambiare il mondo, oggi sarebbe anche sufficiente riuscire a salvare se stessi e i nostri cari. 

E cosa sta preparando Porfirio Rubirosa o cosa gli manca ancora da fare? 

Non essendo più in giovane età, dico sempre che ho un roseo futuro alle mie spalle. Al di là di questo, il mio ultimo disco (del 2023), Il furore composto, è sui sette vizi capitali e ci ho lavorato con Fabio Merigo, il produttore artistico di Giuliano Palma e di Nina Zilli. Mi ci sono trovato molto bene e ora sto lavorando su un altro concept album sull’amore, su cui non avevo mai scritto canzoni studiandole dall’interno. E poi ci sono sempre i concerti da fare!

Porfirio Rubirosa non fa più il playboy nè il manovale, ora è cantautore, ma anche avvocato ultima modifica: 2024-07-03T17:20:19+02:00 da Gigi Fincato

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