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INTERVISTE PERSONAGGI

Giovanni Vio, l’architettura oltre la tradizione familiare

primo piano giovanni Vio

Vivere l’architettura in famiglia, nella propria città e non solo nella quotidianità del lavoro. Questo e altro è Giovanni Vio, nato a Mestre nel 1964, dove ha vissuto fino al 1998 per poi spostarsi a Venezia, dove ha anche lo studio. A Mestre ha abitato in centro, al nono piano con vista su piazza Barche, poi in via Pio X, di fronte alla mia scuola elementare.

Vedevo Mestre che cresceva

Poi ancora in piazzale Candiani, di nuovo ad un piano alto, infine in una villetta in via Trentin. Per Giovanni Vio “abitare in alto significa vedere orizzonti luminosi, il sole che nasce oltre i tetti, i lontani riflessi della laguna. Vedevo Mestre che cresceva. Una percezione del posto totalmente diversa da quella che ho avuto poi, incastonato nel tessuto mediocre, tra recinti di giardinetti, e senza città, ai margini di via Piave”

Per Giovanni Vio qual è stato il ruolo della formazione, sia scolastica che universitaria?

Ho frequentato il liceo classico Franchetti e da quegli anni mi sono rimasti alcuni buoni amici e dei ricordi intensi. Tutto gravitava intorno alla malattia di mia sorella Francesca che ricordo con dolore insieme a profonda riconoscenza per chi la ha aiutata. Girare in bici ovunque, tra le macchine, sui bordi della laguna dove spesso mi sono fermato a dipingere. Era la mia passione, ma per frequentare l’università a Venezia mi sono fermato. Studiare allo Iuav di Venezia in quegli anni significava incontrare studenti da tutta Italia e anche dalla Grecia e dalla Turchia. Eravamo moltissimi per ogni corso. Le aule, dove tutti fumavano, erano inadeguate per misure e vie di fuga. Quante volte ero seduto per terra per seguire le lezioni!

Il rapporto studente – docente

Oggi il rapporto studenti-docente è molto contenuto, ma è anche tutto più burocratizzato e impersonale. I corsi infatti sono stati spezzettati, senza lasciare sufficiente tempo alla sedimentazione della conoscenza e anche del rapporto personale, che ritengo sia una condizione importante. Il ruolo dell’università è di trascinare i ragazzi fuori dalle loro realtà locali e metterli su una strada di ampio respiro. Una strada come minimo europea, con spazi per lo studio, lo sport, il tirocinio e, poiché siamo a Venezia/Mestre, di appassionarli al territorio.

Anna e Giovanni Vio
Un’immagine familiare con Anna e Giovanni Vio

Dopo la laurea hai scelto di fare esperienza all’estero, a Londra, dove hai conosciuto la tua compagna. Anche lei architetto?

Sì, sono stato un anno in un piccolo studio londinese, dove ho conosciuto Anna, di Città del Capo, che stava facendo tirocinio come me. Abbiamo deciso di spostarci in Italia, perché io pensavo di unirmi allo studio dei miei genitori Ettore e Lucia, entrambi architetti e di poter offrire lavoro anche ad Anna. Scelta a cui Anna ha aderito e in cui è riuscita a mantenere una propria autonomia. Oggi Anna ha due lauree ed è iscritta a due ordini professionali, quello britannico e quello italiano. Insieme abbiamo affrontato moltissimi progetti, quasi tutti nel campo del recupero del patrimonio storico e culturale.

Il Museo di Palazzo Roverella di Rovigo

Alcuni di questi progetti sono arrivati fino alla realizzazione. Ricordo il nuovo campanile per la chiesa di Poleo a Schio, perché è pubblicato anche sulla guida delle architetture moderne della provincia di Vicenza. Inoltre il museo di Palazzo Roverella a Rovigo, di grande successo, del quale, per la complessità delle vicende e l’articolazione nel tempo, abbiamo anche scritto un libro. Ora, in corso d’opera, c’è la nuova biblioteca civica di Badia Polesine, nel complesso dell’antica abbazia della Vangadizza, e la sezione archeologica del museo civico di Feltre, casi in cui stiamo sperimentando l’impossibile in architettura: ottenere un risultato magnifico con pochissime risorse. 

Giovanni Vio ha l’architettura nel Dna, passione ereditata dai genitori

I miei li ho sempre visti come figure tra loro pari, dello stesso livello professionale, per come si trattano a vicenda, e per come hanno gestito i ruoli nello studio e nel processo di formazione del progetto. Mio padre ha finito per rappresentare al mondo esterno il lavoro della coppia, mentre la figura di mia madre è rimasta nelle retrovie. E’ stata la risposta ad una cultura arretrata, un compromesso per sopravvivere in una società dove alla donna, di base, non è data uguale considerazione e autorevolezza. Dall’esempio professionale dei miei, e dalla cristallina formazione di Anna, ho imparato che siamo responsabili di servizio, il più delle volte non considerato nella sua integrità e autonomia.

Una vetrata dell'architetto Vio
La vetrata della chiesa del Corpus Domini di Mestre

La professione come missione

Il papà è stato anche proto di San Marco ed ha seguito la basilica con una passione e una coerenza incredibile. Immagino che il suo sentimento sia duplice. Da una parte una viscerale passione, che è fisica oltre che dello spirito, per le pietre della sua città, di cui fan parte quelle della basilica dogale. Dall’altra la consapevolezza di essere parte di un denso flusso di esperienze che scorre, certamente mutato, fino ad oggi, dalla fondazione della città lagunare, cangiante e vivo come il rosso vessillo di san Marco.
Credo che questa passione, trasposta in senso lato, sia anche la missione della nostra professione. Questa non può mai essere separata né dall’appartenenza ad una società e dal rispetto delle regole che essa si pone, né dalla conoscenza delle risorse materiali e delle tecniche.

Sei noto anche per aver realizzato originali vetrate per alcune chiese della terraferma, potresti raccontarlo?

Ho imparato a tagliare il vetro, a selezionarne gli accostamenti cromatici, e comporlo in vetrate colorate di mio progetto. La prima occasione è nata quando ancora frequentavo il liceo. Mi piaceva dipingere, e collaborai allo studio e poi anche all’esecuzione di una grande fascia di vetrate che racchiudeva l’aula della chiesa della Ss Trinità a Schio.
A Mestre ho eseguito due opere per me molto significative. La chiesetta quattrocentesca di San Rocco, che è una gemma in centro alla città, e la nuova chiesa del Corpus Domini nel rione Pertini, per l’amico don Franco de Pieri. Qui la tradizione iconografica di San Marco è stata trasposta in chiave moderna. Il fascino del vetro colorato ha a che fare con la mutevolezza della luce, che troviamo poi nell’acqua della laguna, apparentemente monotona, e invece sempre diversa, tridimensionale. La luce e il chiaroscuro sono alla base del disegno così come della fotografia.

La Venezia di Giovanni Vio
Un’immagine di Venezia colta dall’architetto Vio

Quindi il tuo lato artistico si è sviluppato anche attraverso la passione per la  fotografia?

Per me è un modo di leggere e interpretare la bellezza nel nostro quotidiano. L’occhio dell’architetto riesce a cogliere con la fotografia, che delimita, inquadra, estrae, le vocazioni dei luoghi, e diventa uno strumento di progetto, e a volte di critica e di denuncia. Quando fotografo sono però sempre guidato dal senso dell’armonia, dalla ricerca dell’equilibrio e della bellezza.

Giovanni Vio, come giudichi la realtà territoriale del futuro, più a vocazione turistica che industriale e culturale?

I luoghi che percorriamo ogni giorno nel territorio sono nostri a seconda dello spirito con il quale vi camminiamo e vi stiamo. Si deve andare lentamente, con la possibilità di salutare, di parlare, di sedersi all’ombra di un albero, di respirare aria pulita, Così i luoghi sono più nostri che quando vi si sfreccia in macchina o in elicottero e se ne ha percezione attraverso i numeri dei titoli in borsa che appaiono a monitor.
Questo penso del futuro di Venezia, di Mestre e di Marghera. Dobbiamo formare un senso di appartenenza per poter ragionare sui grandi temi.  

Giovanni Vio, l’architettura oltre la tradizione familiare ultima modifica: 2020-01-23T09:00:00+01:00 da Gigi Fincato

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