Maria Cristina D'Incà, la dottoressa che sa ascoltare - itVenezia

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INTERVISTE STORIE

Maria Cristina D’Incà, la dottoressa che sa ascoltare

La dottoressa D'Incà

Anche la dottoressa Maria Cristina D’Incà doveva andare in pensione, a fine agosto. Ma come molti suoi colleghi anche lei è stata “corteggiata” dall’ASLL per continuare a seguire ancora per qualche tempo i suoi “mutuati”. La decisione di continuare per un altro anno cade in un momento particolare, nel quale non ci sono sufficienti ricambi tra i neolaureati. Lei è un medico di base mestrino molto amato dai suoi pazienti, come forse non ce ne sono più molti.
Nata nel 1953 a Mestre, da famiglie di origini bellunesi, due figlie, ora grandi, avute da giovane. Laureatasi in medicina nel 1978 a Padova, poi specializzatasi in pneumologia. Lavora come medico di medicina generale dal 1981, quindi sono quasi quarant’anni di visite a domicilio ed in ambulatorio. Alla dottoressa D’Incà è sempre piaciuto il rapporto con le persone, la sua empatia e pazienza è apprezzata da tutti, insomma quel che si dice il medico di una volta, che non ti fa solo un certificato, ma ascolta e ti aiuta davvero. 

Innanzitutto perchè la scelta di una professione così impegnativa?

Credo che questo lavoro necessiti di un’accoglienza dell’altro, chiunque sia. Ed anzi più è a disagio e più ha bisogno di essere aiutato. Occorre voler bene alle persone, prima di tutto perchè penso che se uno chiede di venire da me ha comunque qualcosa da dirmi ed ha bisogno soprattutto di essere ascoltato. Più le persone parlano e più capisci il motivi per cui sono venute. Non arrivano solo per una scatola di farmaci, ma perchè hanno bisogno di guardarti in faccia. Questo porta via moltissimo tempo, fino ad otto – nove ore di ambulatorio al giorno, invece di tre. Più si lascia che l’altro parli e più tempo serve. Il colloquio va incanalato.
Quel che faccio io non ha assolutamente nulla a che fare con la psicoterapia, ma anche solo conoscere risvolti della vita privata aiuta a capire tanta sintomatologia che ti porta il paziente. E che per esempio più che il farmaco per il mal di stomaco occorre lavorare su altro. 

Dando qualcosa in più agli altri c’è il rischio di togliere qualcosa a se stessi?

Ho dato tantissimo a questo lavoro ed ancora adesso ho un po’ sottratto il tempo a viaggiare. Mi chiedo perchè ho sempre fatto 15 giorni di ferie “a volo” d’estate, senza pensare che potevo prendermi di più. Il mio pensiero ora è che forse sia stato un errore, perchè per esempio in passato avrei voluto fare trekking in Nepal e non lo farò certo a  quest’età, perchè non l’ho fatto a cinquant’anni. Occorre prepararsi prima, camminare, prendersi del tempo che non mi sono presa, perchè quando facevo questo lavoro, insieme alla gestione della famiglia, e non avevo altro tempo. Ho quindi questo piccolo rimpianto. Tornando indietro mi direi “no, fermati un attimo”.

Maria Cristina D'Incà nel suo Studio
La dottoressa D’Incà nel suo ambulatorio (foto Luca Fincato)

Come è cambiato in questi anni il ruolo del medico di famiglia?

Ho iniziato negli anni Ottanta, quando si andava di carta e penna ed un rapporto più veloce con il paziente, mentre la burocrazia di questi ultimi anni si è messa di mezzo nel rapporto col paziente. Sono stata una degli ultimi ad usare il computer, perchè lo trovavo come qualcosa che interferiva nel rapporto con il paziente. Bisogna invece rispettare anche il rapporto con la burocrazia, anche con il computer, benchè mi sia adattata con difficoltà, perchè non mi piace. Quindi lo uso male, mi sono adattata.
Non volendo togliere tempo a quello che è il rapporto col paziente, continuo a visitare molto e di conseguenza uso anche diverse ore al giorno il computer. Alla fine mi pesa tornare a casa tutte le sere alle 20 e vorrei quindi godermi ancora un pezzo di vita.

In che modo Maria Cristina D’Incà ha vissuto come medico questo periodo di pandemia?

Quello che prima sembrava impossibile, come il telelavoro, ora c’è. Però anche questo ha una ricaduta, cioè che manca il rapporto con i colleghi. Nelle persone che fanno il telelavoro vedo un certo disordine, mangiucchiano, poi tornano al computer, stanno in pigiama. Una cosa su cui insisto è tenere i ritmi ed i tempi. A parte ciò, le persone erano terrorizzate, bombardate ad ogni ora da messaggi anche discordanti. Questo le ha portate ad avere una confusione terribile ed avere paura per ogni cosa. Ciò ha creato molta ansia nelle persone. Ci chiedevamo come ne saremmo usciti. Questa malattia a fatto render conto a tutti che la vita ti può scappare dalle mani nel giro di pochi giorni e senza preavviso.
Pensavamo che potesse rimanere un senso di maggior rispetto per se stessi, in realtà quando sono ritornati a frequentare i nostri ambulatori erano i pazienti di prima, magari con mascherine e guanti, ma a volte sempre un po’ aggressivi, un po’ medici per aver letto qualcosa in internet. Non li ho visti più attenti o educati, li ho piuttosto visti arrabbiati. 

Molti medici vanno in pensione, ma non ci sono altrettanti giovani a dare il cambio, perchè?

È una situazione difficile, la figura del medico di medicina generale è un po’ squalificata, sia dai colleghi ospedalieri che in genere anche un po’ dai pazienti. Si va da quelli che ci adorano a coloro che vengono solo per le ricette. In realtà anche l’epidemia ha dimostrato che si tratta di una figura importante. Questo grazie alla capillare presenza dei medici, che ogni giorno conosceva la situazione dei propri pazienti, almeno in Veneto. Cosa che non è accaduta in Lombardia. Comunque da decenni l’accesso alla facoltà di medicina è a numero chiuso. Viene fatto un test d’ingresso che a volte non qualifica come buoni medici, ma magari come studiosi.
Oggi mancano soprattutto le branche chirurgiche, perchè non hanno potuto entrare anni fa. Una politica quindi miope, che non ha guardato nel lungo periodo. I pochi medici che ci sono ora se possono evitano il lavoro del medico di base, squalificatosi con gli anni.   

Maria Cristina D'Incà - Immagine notturna del centro di Mestre
Piazza Ferretto di notte (Foto Luca Fincato)

Ha praticamente sempre vissuto a Mestre, qual è il suo rapporto con questa città?

È un rapporto un po’ conflittuale, nel senso che la trovo un po’ sporca, poco curata, inquinata, rumorosa. Ha un sacco di difetti, ma ha un grande pregio, che è quello di essere molto piccola, per cui io, che da sempre giro solo in bicicletta per le visite domiciliari, per andare da Favaro a Zelarino non ho alcun problema, so quanto ci metto, cosa che non  saprei se andassi in auto. Come avrei potuto farlo in una città come Milano o Roma? Mestre ha un altro grande vantaggio, che è di essere vicina a Venezia, vicina alla mie amate montagne delle Dolomiti, vicino al mare.
È un posto strategico, con un nodo ferroviario dal quale si può andare ovunque. Quindi nella sua bruttezza, tra virgolette, è una città comoda. Anche se una decina d’anni fa era migliore, c’era l’idea della Venezia di terraferma, di una città che poteva anche essere carina. È stata pensata dai veneziani, con strade piccole, strette, a volte senza marciapiedi, come dalle parti di Carpenedo o Bissuola, senza parcheggi. È stato sacrificato troppo il verde, troppo cemento e disordine architettonico. Ci si vive perchè ci si lavora, ma alla fine l’aria buona la si respira al mare o ai monti.              

Maria Cristina D’Incà, la dottoressa che sa ascoltare ultima modifica: 2020-10-09T09:18:00+02:00 da Gigi Fincato

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